testata-piu-piu_piccolo trasparente girata

 

 

 

n° 15
gennaio 2011

prima pagina n 15

editoriale

politica del fare ed agire politico

segnali di
accelerazione

patrie senza stato e meta-stato

Micco Spadaro, cronista di “grazie”

“la peste”
racconta la peste

 

 

 

 

 

 

logo-pdf-2

visualizza l’articolo in pdf

facebook-logo-32

contattaci su facebook

logo_mail-32

scrivi all’autore

 

 

Statistiche 

 

 


Politica del “fare” e agire politico
Un'interpretazione della Vita Activa di Hannah Arendt
di Francesco Pezzullo

Chi nella libertà cerca qualcos'altro che non sia la stessa libertà è fatto per servire”
A. de Tocqueville

 

”Le assemblee pletoriche sono assolutamente inutili e addirittura controproducenti”, così si esprimeva il Presidente del Consiglio dei Ministri in una dichiarazione pubblica nel maggio 2009. Il riferimento era al Parlamento, istituzione dove, attraverso il confronto e la discussione, si approvano le leggi e, pertanto, luogo rappresentativo di ciò che Hannah Arendt, nella Vita activa, definisce agire. Questa attività presuppone un mondo abitato non dall'Uomo in astratto, bensì da persone che interagiscono tra loro. La pluralità è presupposto imprescindibile di ogni vita politica. L'azione non può neppure immaginarsi senza una società di uomini. Sempre il nostro Premier, poi, si esprimeva positivamente nei confronti di un'altra istituzione,del governo, del suo governo, “che per la prima volta è retto da un imprenditore e da una squadra di ministri che sembrano membri di un CdA per la loro efficienza”. Un elogio, in questo caso, della politica del “fare”, dell'operare, altro aspetto dell'attività umana, considerato da Arendt. All'operare corrisponde una dimensione non-naturale, il suo prodotto è il mondo delle cose artificiali, costruite dall'uomo nel suo isolamento senza bisogno di alcuna interazione con l'altro.
Per il Capo del governo, dunque, è palese la sopravvalutazione del “fare” a fronte di un netto discredito dell'azione politica e proprio il pensiero della Arendt può aiutare a fornire una chiave di interpretazione al perché di un tale sbilanciamento.

arendt trasp

Nella società moderna, sostiene l'autrice, la ricchezza è calcolata in termini di potere di guadagnare e di spendere. Al problema di come adeguare il consumo individuale alla illimitata accumulazione della ricchezza si risponde, di conseguenza, trattando tutti gli oggetti d'uso, prodotti dell'”operare”, caratterizzati dalla durabilità, come fossero beni di consumo, prodotti del lavoro, la forma della vita activa, tramite cui si provvede al soddisfacimento   dei     bisogni

scherma1-11

biologici dell'uomo: dal lavoro dipende la sopravvivenza stessa del genere umano. Ne segue, secondo Arendt, che oggetti come una sedia o un tavolo vengono oggi consumati con la stessa rapidità di un abito, e la durata di un abito è di poco superiore a quella del cibo. L'incessante bisogno di una sempre più rapida sostituzione delle cose del mondo non consente di conservarne la naturale durevolezza: il principio è consumare, divorare. Lavoro e consumo in tal modo si compenetrano: tutto si suppone fatto per “guadagnarsi da vivere”. L'intera nostra economia, in quanto economia di spreco, si avvale di una distinzione sempre meno netta tra una sfera domestica, in cui gli uomini vivono insieme per la conservazione propria e della specie, e una sfera pubblica, quale luogo della libertà. Già prima di Marx, i teorici dell'economia politica moderna hanno considerato la politica una funzione della società: azione, discorso, pensiero formano sovrastrutture di determinati interessi sociali. La sfera privata, nella società di massa, ha finito con “l'abbracciare e controllare tutti i membri di una data comunità in maniera uniforme e con la stessa forza”. L'uguaglianza moderna si fonda sul conformismo sociale e ciò in quanto il comportamento ha sostituito l'azione come modo attraverso cui gli uomini si relazionano. Il comportamento distrugge la molteplicità dei punti di vista. Esso definisce un radicale isolamento: al singolo è tolta la possibilità “di vedere e udire gli altri, essere visto e udito dagli altri”. La propria prospettiva non si distingue da quella del vicino, ma ne rappresenta una moltiplicazione e un prolungamento.
Oggi si assiste al predominio indiscusso del lavoro sulle altre attività umane. L'ideale dell'abbondanza e dello spreco consente e giustifica appieno la gestione della vita politica secondo i metodi del fare. L'uomo che fabbrica (homo faber) è signore di tutta la natura, in quanto la plasma a suo piacimento ed è, altresì, padrone di se stesso e delle sue opere. Non è così per l'uomo che lavora (animal laborans), soggetto alle necessità naturali della vita, non lo è per l'uomo d'azione (zoon politikòn), legato al suo prossimo. L'opera avviene nell'isolamento. Le forme specificamente politiche dello stare insieme con altri, dell'agire di concerto e dello scambiarsi opinioni non appartengono al modo di produrre dell'artigiano.
La traduzione politica dell'homo faber è l'”uomo forte”. Questi, isolato dagli altri, deve la sua forza all'illusione di poter “fare” leggi o istituzioni come possono farsi tavoli o sedie. Egli trae la propria giustificazione dalla sfiducia nell'azione, quale dialogo e confronto con l'altro, nonché dalla credenza che gli uomini si possono trattare come oggetti d'uso.
La sfera pubblica entro cui si muove l'”uomo che fa” non è dunque l'agorà, la piazza dove ci si incontra per discutere e agire, bensì il mercato di scambio dove si incontrano prodotti.
L'inutilità dell'azione e del discorso, della politica in generale, che spesso permea la società moderna è una conseguenza del suo interesse per i “prodotti tangibili e i profitti dimostrabili” o della sua ossessione per il funzionamento regolare e dell'efficienza. In tutti gli argomenti avanzati contro la democrazia si trova, dice la Arendt, il tentativo di sostituire il fare, che comporta stabilità, sicurezza, produttività, all'agire, che implica accidentalità e irresponsabilità morale.
Distintivo della politica del “fare” è il concetto di “governo”, la nozione cioè che gli uomini possono legalmente e politicamente vivere insieme solo se qualcuno ha il diritto di comandare, mentre gli altri sono costretti ad obbedire. La costrizione, senza cui non potrebbe aver luogo nessun processo di fabbricazione, diventa elemento fondante della politica del “fare”. Qui la legittimità e il diritto dell'autorità giocano un ruolo molto più decisivo che non la comprensione e l'interpretazione dell'azione stessa. Dietro la politica del fare, dunque, può celarsi una progressiva riduzione degli spazi democratici e la conseguente perdita di libertà del cittadino, sempre più privato di questa sua

corsa-1
corsa-2
corsa-3
corsa-4
corsa-5
corsa-6

qualità, a fronte di una passività che lo relega al solo ruolo di consumatore-lavoratore.
Del resto, è proprio presentandosi nella veste di faber, FA-BER(lusconi), che il capo dell'esecutivo ritiene legittimamente di dolersi di una legislazione e di organi di contrappeso, quali il Parlamento, la Corte Costituzionale, la Magistratura, considerati un ostacolo   alla possibilità di “plasmare” il Paese

uomo-1-11-copy

secondo i propri interessi. Un altro faber, FA-BER(tolaso), nel sostenere l'efficacia del fare in politica ha sempre richiamato la metafora per la quale un medico se trova un ferito per strada deve caricarlo in macchina e portarlo in ospedale. Se poi passa con il rosso, pazienza, pagherà la multa. Rimanendo sul piano della metafora, tuttavia, il ridimensionamento dell'agire politico appare, invece, molto più simile ai casi in cui un'ambulanza a sirene spiegate trasporta un ferito grave in ospedale in pieno traffico e mentre i più si adoperano per dare la precedenza, c'è sempre qualche furbo che approfitta della situazione per mettersi nella scia e sopravanzare: sopraffare.
Doveroso è il richiamo al senso di responsabilità della nostra classe politica, sebbene anche l’opposizione, sempre più spesso, appare affascinata dalla logica del “fare”. Forse non è solo un caso che il leader del maggiore partito dell’opposizione, almeno nel nome, si presterebbe a diventare FA-BER(sani).
Anche alla luce delle difficoltà in cui versa il Paese forse non è il primato del fare, quanto piuttosto quello del pensare che occorre rivendicare e auspicare, così come avrebbe suggerito la Arendt.

scherma-2-inv