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n° 15
gennaio 2011

prima pagina n 15

editoriale

politica del fare ed agire politico

segnali di
accelerazione

patrie senza stato e meta-stato

Micco Spadaro, cronista di “grazie”

“la peste”
racconta la peste

 

 

 

 

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Statistiche 

 

 

Patrie senza Stato e meta-stato nell’Italia del XXI secolo
Il Risorgimento tra (de)legittimazione ideologica e realismo politico

di Rosa Passaro


Ben oltre le soglie del secondo millennio la società contemporanea sembra vivere un’epoca nella quale vi si riscontra la completa erosione di ogni ideologia, che sia essa culturale o politica.
Dopo il crollo del comunismo negli anni ottanta del novecento, l’avvento della terza rivoluzione industriale (essenzialmente informatica) e dell’economia transnazionale, gli spazi di comunicazione e del vivere sociale sembrano essersi enormemente dilatati.
italia-capovoltaL’era della globalizzazione e di società multietniche hanno finito per rendere sempre meno indissolubile il binomio Stato-Nazione.
All’interno di tale contesto storico-politico, che coinvolge sia istituzioni che comunità sociali, il risultato è una maggiore importanza data allo “ius sanguinis” rispetto allo “ius soli”.
Le numerosissime ondate migratorie, infatti, che hanno percorso le coste europee (e non solo) soprattutto durante gli ultimi decenni, hanno causato la formazione di piccole o medie realtà sociali in cui l’elemento identitario (fatto di usi, costumi e tradizioni proprie) predominava e predomina.
Tali accadimenti riguardano molto da vicino anche la nostra penisola, da sempre punto di incontro e di scontro di civiltà e di diverse soggezioni politiche ed economiche.
Comunità provenienti dall’Est europeo, dall’Africa nord occidentale, dal Sud est asiatico hanno reso multietniche molte città italiane e soggette ad una convivenza che non sempre ha condotto ad esiti positivi.
Sebbene avvenuti all’interno di microcosmi sociali, “gli scontri fra civiltà” hanno prodotto una serie di discriminazioni razziali che hanno molto spesso privato tali comunità dei più elementari diritti civili.
Questi disdicevoli avvenimenti risultano più frequenti in quelle regioni del centro-nord in cui predomina la formazione politica della Lega!
A partire dagli anni’ 80, facendo affidamento sui risentimenti antistatuali dei ceti imprenditoriali del centro nord, questa formazione partitica ha impostato la sua identità su caratteristiche quali il secessionismo e il federalismo.
Durante il giuramento di Pontida del 1996 la “Dichiarazione d’indipendenza e sovranità lega-razz1della Padania” fu ratificata da un fittizio parlamento eletto a Mantova, sancendo l’atto di nascita di un nuovo “meta-stato”. Il definitivo atto secessionista fu “coronato” poi (oltre che dalla pantomima costituzionale) dalla richiesta di una devoluzione di poteri. 
Ostacolando l’integrazione di immigrati sia extra comunitari che meridionali, la Lega ha così formato nel corso degli anni, anche grazie ad un leader sanguigno come Umberto Bossi, uno spiccato sentimento anti-nazionalista. Rifacendosi alle tradizioni autonomistiche comunali dell’Italia medievale, essa rifiuta ogni lettura positiva del Risorgimento, rifacendosi indebitamente alla tradizione federalista di Carlo Cattaneo.
Ovviamente tale identità partitica risulta come una costruzione ideologica, come il risultato di un realismo politico utilizzato per legittimare una forma di potere, una “menzogna utile” per utilizzare le parole e il sentito di Nicola Chiaromonte.
Questi aveva visto nella costruzione ideologica del fascismo l’utilizzo del Risorgimento (e molta parte del suo “totemismo patriottico”) per la legittimazione del nuovo nazionalismo di destra. Il bene della Nazione, la morale borghese, il mito della Patria, il rispetto della religione, la monarchia come garante della continuità nazionale erano divenuti ben presto, infatti, i temi fondamentali intorno ai quali il regime aveva costruito il proprio consenso. In realtà secondo Chiaromonte il fascismo aveva utilizzato la degenerazione dello stato democratico liberale e una popolazione priva di diritti civili e politici (che non aveva vissuto la nazionalizzazione delle masse) per giungere al potere. Nella difficile situazione di inizio secolo, a seguito del primo conflitto mondiale, il fascismo aveva saputo interpretare, quindi, i risentimenti e le aspirazioni mameli1che, né la borghesia, né i partiti rivoluzionari, erano in grado di rappresentare. In realtà il “social nazionalismo”, mostrando di fare gli interessi della nazione e di salvaguardare i diritti delle masse, non faceva altro che detenere la popolazione in una condizione “amorfa e indifferenziata”, soffocando ogni libertà civile e politica.
Per Chiaromonte, quindi, il mito fascista della Nazione non coincideva con l’idea di patria e i valori di universalità ad essa connessi, ma era una legittimazione ideologica, utilizzata dal regime per affermare il proprio potere.
Tale quadro richiama l’attenzione alla nozione di “realismo politico” utilizzata dall’intellettuale antifascista e anticomunista. Per Chiaromonte la politica (che è arte del vivere) non si esercitava solo attraverso il potere ma anche attraverso una serie di varianti come il linguaggio che “costringevano” l’individuo a soggiacere a una serie di leggi materialistiche e machiavelliche, incuranti del bene comune dell’individuo, sentito come uomo tra gli uomini.
In una concezione assolutamente pessimista della realtà, mutevole e quindi inafferabile in leggi o verità valide universalmente, Chiaromonte rappresentava una società essenzialmente schiava della ragion di stato, di un potere che sembrava rappresentare l’unica divinità in terra. Non bisognava stupirsi, quindi, afferma Chiaromonte, se in questa situazione il cittadino mostrasse una sorta di passività, di umiliazione mentale, in quanto tutto ciò era il risultato di una forzata costruzione ideologica.

Tra gli anni trenta e sessanta del novecento il contesto all’interno nel quale Chiaromonte effettuava tale disamina era ovviamente molto diverso da quello attuale. Il fascismo, il comunismo e il progresso scientifico erano i demoni ideologici contro cui Chiaromonte combatteva la sua battaglia di intellettuale, battaglia contro quelle ideologie che soffocavano l’anima pensante dell’individuo, rendendola schiava di sistemi di pensiero dogmatici, in cui non vi era spazio per quella realtà mutevole che egli sentiva di vivere.
Oggi, dopo il crollo del comunismo e la crisi delle ideologie “post-68”, viviamo una realtà completamente opposta, una realtà in cui ogni certezza sembra essere demolita sotto i colpi di nuovi “miti telematici”.
Mi è sembrato, però, giusto serbare la nozione di realismo politico, utilizzata da Chiaromonte, come paradigma concettuale per spiegare in che modo oggi la politica e i suoi nuovi miti vengano esclusivamente utilizzati per l’esercizio e il mantenimento del potere. Esso, che viene a coincidere con la politica stessa, per legittimarsi ha bisogno di un’ideologia intorno alla quale costruire la propria identità partitica.
L’esercizio politico della Lega s’inserisce perfettamente all’interno di questo quadro. Essa utilizza impropriamente in chiave anti-risorgimentale il mito della nazione (in questo caso quella padana) per la legittimazione della sua ideologia partitica e per ottenere con il federalismo la concessione di quei poteri che potrebbero pienamente legittimarla a livello politico.
Alle soglie del 2011, anno in cui ricadrà il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, il Risorgimento si trova così a dover rivivere in un contesto nel quale un organo di rappresentanza politica (la Lega) giudica negativamente il processo di costruzione nazionale, avviato e poi compiuto dalla monarchia clandestinisabauda.
Alla luce di quanto detto finora l’essenza stessa dello Stato-Nazione va strenuamente difesa, soprattutto in virtù della sua attuale determinazione, figlia dei tempi in cui viviamo. Esso, infatti, sembra essere caratterizzato soprattutto da un insieme di tradizioni, usi e costumi, piuttosto che da delimitati confini nazionali. Tale visione risulta tanto più evidente se si considera l’istituzione dell’Unione europea nel 1997 e la conseguente formazione di società multietiniche.
Facendo appello all’unità nazionale, ora come non mai, istituzioni e cittadinanza dovrebbero infatti impegnarsi affinché le componenti migratorie si integrassero perfettamente all’interno della società, attraverso un piano di educazione civica e linguistica (questo in sostanza il progetto di legge delineato e presentato in queste ultime settimane dall’ex ministro Livia Turco). In questo modo, grazie all’intervento coordinato sul territorio di province, regioni, comuni e sindacati l’immigrato-clandestino, pur non abbandonando le sue origini etnico-culturali, diverrebbe cittadino italiano a tutti gli effetti, conoscendo le origini e l’importanza dei diritti civili e costituzionali.
Applicando una vasta politica sociale di integrazione di compagini extra-comunitarie, si eviterebbero così le numerose discriminazioni razziali, frutto di meri tatticismi politici e di pregiudizi ideologici.

 

 

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Nicola Chiaromonte:
una nota
bio-bibliografica.

Nicola Chiaromonte nacque a Rapolla in provincia di Potenza il 12 luglio 1905. Compì gli studi a Roma dove si laureò in giurisprudenza.
Dopo una giovanile adesione al fascismo, a seguito del delitto Matteotti entrò in contatto con i gruppi dell’antifascismo laico (collaborò al «Mondo» di Giovanni Amendola). Nel 1932, poi, il giovane cominciò a scrivere sulla rivista degli esuli parigini diretta da Carlo
Rosselli. E fu proprio durante la collaborazione ai «Quaderni di Giustizia e Libertà» che Chiaromonte conobbe Andrea Caffi, al quale sarà accomunato non solo per lo spirito libertario, l’anti-statalismo e le spinte federative ma soprattutto per la comune polemica sul Risorgimento. Abbandonata GL ma non l’attivismo politico, prese parte alla guerra civile spagnola (1936-39), combattendo per il fronte repubblicano nella squadriglia aerea di Malraux. Dopo l’invasione tedesca di Parigi, partì alla volta di Algeri dove conobbe Albert Camus verso il quale nutrì sempre una grande stima. Fu poi la volta degli Stati Uniti d’America dove visse da esule l’intero corso del secondo conflitto mondiale. Lì conobbe Hannah Arendt, Mary McCarthy, Meyer Shapiro, collaborando a riviste quali «Partisan Review», «Atlantic Monthly», «The Nation». «Politics», diretta da Dwight Mc Donald, rappresentò grazie anche al contributo di Chiaromonte un tentativo di conciliare orientamenti diversi fra anarchici e trozkisti. Da New York collaborò anche con la rivista di Gaetano Salvemini, «Italia Libera», che raccoglieva intorno a sé tutti gli esuli antifascisti; Chiaromonte dovette però fare i conti con l’élite newyorkese che mal accettava il diniego del marxismo e dello storicismo dell’intellettuale. Finita la
guerra, nel 1951 Chiaromonte tornò a Roma, avvertendo tutto il clima di ostilità che lo circondava. Intellettuale libero, non lasciatosi incantare né dalle sirene dell’idealismo crociano, né dalla destra reazionaria, né dalla sinistra stalinista, fu attraversato lungo tutto il corso della sua esistenza da un fortissimo sentimento antifascista e anticomunista. In quest’orizzonte ideologico e politico nel 1956 Chiaromonte fondò assieme ad Ignazio Silone «Tempo Presente». L’antitotalitarismo, l’europeismo, l’appoggio al processo di decolonizzazione, l’avversione al nazionalismo e all’autoritarismo di De Gaulle, alle degenerazioni illiberali della società americana e alla dimensione teocratica assunta dal nuovo Stato di Israele, alla guerra del Vietnam, furono i temi dominanti della rivista. Essa, dopo uno scandalo internazionale suscitato da alcune rivelazioni circa finanziamenti che la CIA faceva al ‘Congresso per la libertà della cultura’ cui aderiva anche la rivista di Chiaromonte, smise la sua attività nel 1968. Per molti anni Chiaromonte fu responsabile della critica teatrale sul «Mondo» di Pannunzio e su «l’Espresso». Morì nel 1972. 
 

 

Chiaromonte curò soltanto tre raccolte dei suoi numerosissimi scritti:
Il tempo della malafede, Roma, Associazione italiana per la libertà della cultura, 1953.
La situazione drammatica, Milano, Bompiani, 1959.
The Paradox of History, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1970. Edizione italiana accresciuta di due saggi dal titolo Credere e non Credere, Milano, Bompiani, 1971*.

* Chiaromonte, Le verità inutili, a cura di Stefano Fedele, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2001.

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