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numero 1 / marzo 2017

 

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Contro le donne
Amore, proprietà e emancipazione: divagazioni tra mito e filosofia
di Francesco Pezzullo

W. A. Bougereau 

Io così crudamente colpita da chi era più mio.
Eschilo, Eumenidi, v. 100

            Armonia, poesia, bellezza sono queste le parole recentemente pronunciate da papa Francesco, per riconoscere il valore della donna nella società: a significare la condizione particolare che ella occupa nel mondo tra le creature di Dio. Immediato è il richiamo ai temi della poesia amorosa dello Stil Novo. Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia. Chi non conosce, se non altro facendo appello alle proprie reminescenza scolastiche, questo verso di Dante Alighieri. Attraverso i versi, la donna, sinonimo di bellezza e soavità, evoca in questo senso sentimenti ed emozioni legati all’amore nelle sue forme più alte e sublimi. Colei che si ama è trasfigurata e assume lineamenti e atteggiamenti che ne esaltano le virtù. La visione, o il solo pensiero dell’amata procura diletto al proprio stato d’animo.
            Nei poeti stilnovisti l’amore per la donna si carica, del resto, di un significato preciso. È al centro della loro concezione poetica, in quanto fonte ispiratrice da cui procedere al l’esaltazione dell’amore di Dio. Cantare la propria musa, in altri termini, era il mezzo per giungere e svelare il divino. Il modo è mutuato dal pensiero filosofico di San Bonaventura1 che pervade la loro epoca. Questi, infatti, nell’enunciare la possibilità per l’uomo di giungere alla comprensione di Dio attraverso tre gradi diversi, sostiene che il primo di essi è dato, per l’appunto, dalla contemplazione delle cose sensibili, considerate vestigia del divino sulla terra. Ne consegue così che nella bellezza vi è il segno dell’amore divino. Una cosa percepita bella, gradevole o salutare conduce a desiderare Dio, il quale, in quanto somma bellezza, armonia, salubrità, è fonte di gioia perfetta. Secondo il poeta, quindi, chi può meglio rappresentare nella sua massima pienezza l’impronta tangibile della bellezza e dell’armonia prodotta da Dio è proprio la donna. Attraverso la soavità e la bellezza della donna, creatura di Dio, si è in grado di conoscere il suo Creatore, la sua potenza.
            Per questa via, la donna, musa ispiratrice, assume una suggestiva valenza culturale. Ella diviene veicolo di promozione culturale. Qui l’importanza che il sociologo tedesco Max Weber2 attribuiva alla lirica d’amore quale strumento della diffusione della lingua popolare e il suo affermarsi come lingua letteraria. Il poeta che si rivolge alla donna, soggetto amoroso dei suoi versi, non poteva farlo in una lingua a lei oscura o sconosciuta. Sarebbe stato un paradosso che proprio la principale destinataria dei versi non ne comprendesse il significato. La poesia amorosa, pertanto, ha contribuito, in una certa misura ( il nostro autore tiene a precisare non solo essa e non sempre,) a sostituire lingue dotte come il latino e il cinese antico con la lingua parlata dalla donna cui ci si rivolgeva. Il volgare in questo modo sarebbe stato sublimato in lingua letteraria.
            Alla luce di quanto esposto, indiscusso e fondamentale dovrebbe apparire la posizione della donna nel consesso sociale, se il vissuto quotidiano non fosse lì a testimoniare, purtroppo, una realtà diversa e, in taluni casi, tristemente opposta alla visione di una donna che vede pienamente riconosciuto il proprio ruolo sociale, nonché il proprio valore individuale. La cronaca continua a riferire di casi in cui ella, assai lontana dall’essere soggetto di venerazione poetica da parte dell’uomo, risulta invece oggetto di violenza, sottomissione, sfruttamento. L’incubo nei casi più estremi si conclude con la morte per mano dell’oppressore. Alla base del dramma, quasi sempre, si pone una concezione della donna non come persona autonoma e libera, altro da sé che va riconosciuto per sé e in cui riconoscersi e completarsi all’interno di una relazione sana e positiva. Ciò che emerge, infatti, è sostanzialmente un concetto della donna quale semplice oggetto di possesso.
            La donna mia, scrive Dante. Nondimeno, nella finzione letteraria il possessivo può essere inteso nel significato positivo di appartenenza, cioè quello di coinvolgere qualcuno con il quale entrare in relazione, che si tiene a parte nell’intento di custodirlo, di prenderne particolare cura. In questo senso, l’appartenenza, il possessivo mia, implicherebbe una gioiosità derivante dalla unione di due realtà che si corrispondono reciprocamente, che stanno insieme per comune sentire. Tutt’altro significato, invece, assume quel possessivo, laddove il rapporto dell’uomo verso la donna si esprime in forme di subordinazione. Mia prende il significato precipuo di possesso, decisamente deprecabile riferito ad una persona, per giunta, una persona che si pretende di amare. Il termine, infatti, in termini giuridici, indica il potere su una cosa. Qui non si è più di fronte ad una relazione di appartenenza, bensì di dipendenza. Connesso al possesso è il diritto di proprietà, il dominio sulla cosa. La donna diventa proprietà del suo uomo: padre, marito, amante. Questa viene ad essere in disponibilità esclusiva da parte di chi la detiene. Il diritto romano per definire la proprietà ricorre alla formula per cui dominium est ius utendi et abutendi, il dominio è diritto di usare e consumare. La donna è mia, si è detto, mio possesso, mia proprietà. E la forma più radicale di possesso, l’unica sicura è la distruzione, perché solo ciò che abbiamo distrutto è sicuramente e per sempre nostro, scrive la filosofa tedesca Hanna Arendt3.
            Dentro questa visione diventa concepibile il rapporto di violenza e sottomissione cui è costretta la donna. Nei casi più aberranti, il potere sulla donna si arroga il diritto di portarla alla morte, tant’è che si è dovuto ricorrere ad un nuovo vocabolo per definire questo delitto, fonetica temente brutto, quanto il significato che esprime: il femminicidio. Così la donna muore. Muore, perché non ha il diritto di lasciare l’amante senza il suo consenso. Muore, perché non ha il diritto di vestire in modo non conforme alla tradizione religiosa di suo padre. Muore, perché non ha il diritto di frapporsi all’amore del marito per un’altra. Muore, perché non ha il diritto di rifiutarsi all’uomo.
            In palese contraddizione, la donna fattore di sviluppo culturale pare così vittima di un’altra tradizione culturale che affonda le sue radici nella società barbarica primitiva, ruotante attorno al concetto di proprietà, secondo quanto teorizzato dal filoso comunista Thorstein Veblen4.
            Il pensatore americano, infatti, connette l’origine della proprietà privata non al momento in cui l’uomo ha dichiarato questa terra è mia, bensì ad una precedente, più significativa appropriazione. Quella nasce quando l’uomo ha detto questa donna è mia. Nella società primitiva, basata sulla rapina e lo sfruttamento, sostiene Veblen, si viene a determinare una rigida distinzione tra il lavoro manuale, legato alla produzione dei mezzi di sussistenza e le cosiddette attività onorifiche. Il primo richiede semplice metodica e diligenza, ma non particolari abilità o capacità, le seconde, invece, presuppongono e si fondano proprio su queste ultime caratteristiche. Le occupazioni che procurano onore a chi le pratica sono pertanto la guerra, la caccia, la politica, l’ufficio religioso. Di contro, il lavoro manuale, umile e degradante, è riservato alle fasce deboli della comunità: in primo luogo alle donne. Le attività caricate di prestigio e dignità diventano esclusivo appannaggio degli uomini, o meglio, degli uomini più capaci. Il modello culturale dominante, in questo tipo di società, si fonda sull’ideale violento della lotta. Il merito è riconosciuto solo a chi è più bravo nel predare che sia in guerra o a caccia. Ogni forma di debolezza o infermità è fatta segno di disapprovazione. Il sistema di valori che ne deriva pretende così una presa di distanza dalla donna e dal suo mondo. Per l’uomo barbarico tutto ciò che attiene alla sfera femminile è impuro perché debole e la debolezza, in quanto contagiosa, può produrre effetti pericolosi. Di qui la necessità di contenere e controllare la donna. Anche la religione vi contribuisce. Il senso di indegnità e di inadeguatezza che accompagna numerose norme rituali e morali riguardanti la donna e che, in molti casi, ancora perdura ai giorni nostri, trova nel sistema dei costumi e dei valori di una società primitiva il suo fondamento. Ancora oggi, soprattutto laddove la presa religiosa sulla comunità è più forte, si ritiene che certe cose o certi lavori non si addicano alle donne.
            Ma la donna non è solo inferiore, è anche preda, bottino. Predominando l’ideale sociale della lotta e della rapina, come si è detto, l’emulazione economica tra i membri del gruppo non si misura in termini di utilità di ciò che si produce, bensì in termini di bottino, di ciò che si cattura in seguito ad una azione aggressiva vittoriosa. La preda è la prova immediata ed evidente del successo ottenuto nella lotta, durante una razzia o un episodio di caccia. È tramite la preda che l’uomo di successo afferma se stesso, rende onorevole e degno il proprio status all’interno della comunità. La donna-preda è per l’appunto un trofeo da esibire, ella è lì a dimostrare al gruppo il risultato tangibile e durevole delle gesta del suo possessore. Il trofeo testimonia la reputazione di chi lo detiene, per questo motivo egli ha tutto l’interesse a conservare sulla donna il proprio dominio esclusivo. Il predatore non può tollerare che altri possano esercitare sul trofeo che gli appartiene un dominio simile al suo. La sua reputazione ne sarebbe menomata: rivelerebbe cioè una sorta di diminuzione delle sue abilità.
            E poiché i canoni di comportamento sociale sono plasmati sostanzialmente dal comune sentire del gruppo dominante ben presto la proprietà diviene la base della stima popolare e di conseguenza requisito primario per definire il rispetto di sé, dice Veblen. Quando la pratica dell’appropriazione delle donne si fissa in costume nasce il diritto all’uso ed abuso esclusivo della prigioniera da cui scaturisce la relazione di proprietà. Veblen precisa che la nascita della proprietà individuale si lega al controllo della donna, in quanto la proprietà presuppone come caratteristica l’esercizio su un bene durevole. La cosa non può essere semplicemente mezzo di consumo immediato e di sussistenza. E tra le cose catturate la donna è considerata bene durevole. In più, risulta utile per il lavoro che produce e non portando armi non è temibile. Le donne sono soggetti idonei ad essere comandati e vincolati, sottomettono il loro onore e la loro vanità al dominatore. Convenzionalmente, poi, quella relazione finisce per essere riconosciuta e legittimata come relazione matrimoniale.
            Nel passaggio a forme sociali meno violente, il concetto di proprietà della donna si mantiene mediante il matrimonio. L’uomo-padrone, anche nella società più evoluta continua a garantirsi il rispetto dei membri della comunità e quello di sé circondandosi di servi, subordinati. Non importa, poi, che siano in grado di adempiere efficacemente i servizi richiesti, fondamentale diventa solo che facciano bella mostra di sé. I servi sono assunti per esibizione; loro compito principale è dare libero sfogo alla libidine di dominio del padrone. In questa ottica la posizione della donna assume un nuovo particolare ruolo. Prima tra i servi, viene elevata di rango, moglie-proprietà del marito dismette ogni funzione pratica o utilitaristica nella casa del marito. Non le si chiede più di rendersi utile con forme di lavoro. In quanto trofeo deve solo mostrarsi al pubblico per testimoniare il valore e l’onore del marito-padrone. Di qui l’attenzione che questi procura alla persona della moglie: ella deve apparire bella e gradevole. Gioielli, abiti costosi, cura del corpo, alcune funzioni direttive nell’ambito della casa le sono concessi in virtù del suo ruolo di promotrice della reputazione di chi la esibisce, del piacere di dominio di questi.
            Ciò detto, sarebbe esistito prima dell’affermarsi di una società basata sullo sfruttamento come quella patriarcale, un modello sociale pacifico e industrioso di tipo matriarcale. Esso sarebbe caratterizzato per  un sistema di proprietà privata poco o per nulla sviluppato e in cui il valore di ogni membro si sarebbe misurato nella capacità a riuscire in occupazioni in grado di favorire lo sviluppo del gruppo nel suo insieme. In tale contesto sociale, la donna è dispensatrice di vita, simbolo della terra (cava materna) che si rinnova e per ciò stesso fautrice di un modello di vita in armonia con la natura. Il pieno riconoscimento del valore della donna comporta nella società matriarcale il fatto che ella avesse un ruolo primario nell’organizzazione sociale e nella vita religiosa.  Contrariamente al matrimonio-coercizione che vede la donna in quanto proprietà sottomessa al marito, qui prevale un sistema familiare in cui si ha la donna senza legami. La forma di matrimonio appare quella di trascurare l’uomo piuttosto che sottoporlo alla sorveglianza della donna. L’unione, che per Veblen si mantiene probabilmente monogamica, poteva sciogliersi per volontà di entrambi.
            I modelli culturali che definiscono la sfera femminile e quella maschile ruotano per la prima intorno ai termini di collaborazione, inclusione, utilità, pace, per la seconda invece si avrebbero i concetti di competizione, esclusione, sfruttamento, guerra. La donna diviene simbolo positivo: essa è vita, dispensa la vita attraverso il parto. L’uomo si distingue in negativo: egli è morte, in quanto agisce in difesa della vita, combatte per essa.
             Il mito interviene a illustrare il drammatico passaggio dall’epoca matriarcale a quella patriarcale, secondo Johann Jacob Bachofen5, principale esponente delle teorie sul matriarcato. L’antropologo svizzero vede quella transizione più precisamente nel racconto di Oreste, assassino della madre Clitennestra. Nell’opera del tragediografo greco Eschilo, le Eumenidi la narrazione informa che rappresentato nelle Eumenidi di Eschilo. Agamennone tornato ad Argo, la sua città, dopo l’impresa troiana, viene ucciso dalla moglie Clitennestra con la complicità dell’amante di questa, Egisto. La donna non aveva mai perdonato il marito per aver immolato la loro figlia Ifigenia, come sacrificio per propiziare la partenza della flotta greca verso Ilio. Delitto chiama delitto. Tempo dopo, Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, dopo anni di esilio, tornerà in patria. Apollo gli ha ordinato di stroncare la madre su richiesta di Zeus, olimpico padre. Il dio rappresenta un nuovo sistema di valori che privilegia la figura del padre. Venera l’uomo e offende la norma degli dei, disperde millenari privilegi6, fa dire Eschilo al Coro. Oreste vendica così il padre, uccidendo la madre. È l’alba del nuovo ordine sociale ed esistenziale: il patriarcato. Le Erinni, divinità legate alla terra, ventre materno, incaricate di tutelare il diritto materno, cominceranno a questo punto a perseguitare il colpevole dell’esecrabile crimine.
            Il giovane matricida riesce, tuttavia, a fuggire al legittimo castigo con l’aiuto di Apollo. Su consiglio di questi va a rifugiarsi in Atene presso il tempio di Pallade. La dea è chiamata a presiedere una giuria che dovrà giudicare del comportamento di Oreste. Il vecchio ordine viene messo in discussione dai nuovi dei: così agiscono gli dei del nuovo tempo. Reggono il cosmo varcando le soglie del giusto7. Il giovane rivendica la giustezza del suo gesto. Clitennestra si era resa doppiamente colpevole: uccidendo lo sposo, aveva ucciso suo padre. Dunque, si chiede perché le Erinni perseguitano lui, mentre non si erano affatto mosse contro sua madre, decisamente più meritevole di punizione. La risposta delle Erinni è secca. Clitennestra aveva ucciso un uomo con il quale non aveva vincoli di sangue. Il delitto da lei compiuto poteva essere espiato, secondo le sacre leggi dei vecchi dei. Il crimine quindi non interessava alle Erinni, il cui compito precipuo era di perseguire chi si macchiava del delitto di consanguinei e il matricidio ne era il più grave e inespiabile: rivolo di sangue materno non si recupera8.  Ascoltate le parti, Atena chiede alla giuria di emettere il verdetto. I voti risultano pari tra colpevolezza e innocenza, ma la dea a questo punto interviene a favore di Oreste e lo assolve. In questo modo il diritto positivo, scritto dagli uomini, il diritto patriarcale sostituisce definitivamente il diritto matriarcale, il diritto naturale. Le Erinni sono sconfitte e con esse il vecchio ordine. Una nuova stirpe di dei si afferma e con essi il nuovo ordine. Atena, vergine guerriera che non crebbe nel cavo ombroso di un seno9, sostituisce Themis, prima moglie di Zeus e madre delle Hore: Eumonia (legalità), Dike (giusta vendetta) e Irene (pace). Il diritto positivo, rappresentato da Atena prevale sul diritto naturale, rappresentato da Themis. Nell’istituire la giuria Atena aveva dichiarato: E l’intera città apprenda le leggi che fondo, le serbi per il tempo perenne10. Nel nuovo ordine, dunque, prevale l’elemento maschile. Nessun giuramento compete in Potenza con Zeus11 e il padre degli dei ha voluto che Oreste facesse scontare l’assassinio di Agamennone senza rispetto per le ragioni della madre. I valori si invertono. L’uomo vale più della donna. Agamennone, l’uomo è prode, nobile, fregiato della divina insegna del potere. […] grande onorato da tutti12. Nessuna considerazione invece per Clitennestra, la donna. Le parole di Apollo davanti all’Areopago evidenziano come il merito e la dignità risiedano nella pura forza. Tra i due omicidi, quello di Agamennone e quello di Clitennestra, è il primo che deve far bruciare di sdegno il giudice chiamato a dire un verdetto. Così Zeus privilegia la parte del padre13 rinfacciano le Erinni .
            Il rovesciamento dei valori ha il suo fondamento nella nuova presa di coscienza intorno al segreto della vita. Nella fase di affermazione e consolidamento della società patriarcale, l’uomo porta con sé la consapevolezza che nel mistero della procreazione è lui ad essere determinante. Il ruolo della donna viene ridimensionato, neutralizzato. È ancora Apollo a spiegarlo: Non la madre, non lei produce il suo frutto: il figlio. La donna nutre il seme, come ospite all’ospite: veglia sul giovane boccio14, ma è l’uomo a procreare. Dietro il mito si celerebbe un radicale mutamento della condizione umana.
            Con l’affermarsi della società patriarcale e dei suoi valori fondati sulla lotta rispetto alla pacifica società matriarcale, si verrebbe a determinare un brutale stato di ferinità, quello della guerra di tutti contro tutti, richiamato dall’hobbesiano homo homini lupus. Il consesso umano per mitigare questo stato sarebbe portato a dotarsi di un nuovo diritto, fondato su leggi scritte, al fine di stabilire una nuova convivenza civile. Nel proclamare al popolo di Atene il suo verdetto la dea dice: Per tutto il tempo venturo […] la gente […] godrà di questo tribunale e dei suoi giudici. […] sacro Rispetto e Paura […] saranno, di giorno e di notte, freno del popolo contro un’iniqua condotta, purché la città non rivolti le leggi15.
            Il diritto naturale, fondato sulle leggi non scritte, non era più in grado di garantire il nuovo istituto della proprietà individuale. Esso è non scritto, ma evidente di per sé, giusto secondo natura e in quanto tale inalienabile e imprescrittibile. La proprietà invece presuppone alienabilità e prescrizione. Esso fa appello alla equità che comporta una certa flessibilità umana e emotiva di ciò che si considera giusto. Nel diritto positivo si fa appello alla giustizia: è giusto ciò che è stabilito dalla legge secondo un rigore matematico meccanico. Ne segue che il furto, la sottrazione della proprietà, secondo la giustizia è un reato che va punito: rubare a chi ha molto e rubare a chi ha poco non decide della qualità del reato, è reato e basta, in quanto tale va punito. In questo modo la società fondata sulla proprietà privata si sente garantita e protetta. Cacciare di frodo nella proprietà del signore, secondo la legge è reato da punire. Qui non compete valutare se il colpevole avesse fame o meno.
            Al di là della legittimità di una interpretazione del divenire storico in forme matriarcali, indubbia rimane l’esistenza di una tradizione culturale di impronta femminile. Tradizione alla base di una particolare visione del mondo, i cui aspetti più significativi vedono l’affermarsi di valori pro-positivi, concilianti verso l’altro e la natura.  Ora l’emancipazione femminile nella società moderna è ormai elemento acquisito, sebbene ancora in divenire e in alcuni paesi decisamente lontano dall’affermarsi. Eppure nella società contemporanea, la donna, impegnata nel rivendicare la propria liberazione, spesso tende a sacrificare quella visione, piuttosto che cercare di imporla. Insegue la propria liberazione sotto l’egida di Atena, la dea che si esprime dicendo che non c’è madre che mia abbia dato vita. Il mio favore va sempre alla parte maschile. [..]. io sono figlia soltanto del padre16.
             La reputazione, la stima degli altri, il rispetto di sé che la donna emancipata riesce ad acquistare continua talora ad avere il volto maschile della durezza, anziché quello femminile della dolcezza. Si pensi solo a quando si sente affermare di una donna che ha ottenuto un certo successo in ambito sociale o lavorativo che è una con i cosiddetti attributi. Per definizione, però, questi risultano un appendice maschile e ciò a significare che la donna riesce ad avanzare, affermarsi, solo nel solco di un modello culturale dominato e declinato al maschile. La società e in essa l’uomo accetta e riconosce il percorso di emancipazione della donna solo se questa adotta valori e modi di pensare maschili.
             In altre parole, continua a mancare o comunque appare debole e minoritaria la visione del  mondo dal punto di vista femminile. Questa fallisce nell’informare la società secondo il modello culturale che rappresenta.
Come non riconoscere questo atteggiamento nella vicenda che ha visto muovere forti critiche ad un concorso pubblico mirante ad assumere medici non obiettori in una struttura ospedaliera pubblica al fine di garantire alla donna il diritto pienamente riconosciutole dalla legge di praticare l’aborto in sicurezza. Le obiezioni sostanzialmente insistevano sull’aspetto discriminatorio che i requisiti del concorso ponevano nei confronti di potenziali aspiranti medici obiettori. Ebbene di fronte a queste critiche un ministro donna non ha esitato a schierarsi contro il concorso, laddove l’obbligo etico e istituzionale per la carica ricoperta e in misura non minore la solidarietà di genere avrebbero dovuto sollecitarla nel garantire ai cittadini, nel caso alle cittadine, l’esercizio di un diritto riconosciuto. E così facendo si finisce ancora una volta con depotenziare il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, sancito dalla Carta Costituzionale. Il mancato rispetto del diritto degli obiettori indigna di più del mancato esercizio di un diritto civile riconosciuto ai cittadini, nello specifico alle donne appunto. Quest’ultimo diritto sarebbe accidentale, subordinato ad altro, considerato di maggiore valenza etico-politica,  per cui se si è fortunate e il concorso venga vinto dal medico non obiettore, allora questo può riconoscersi ed esercitarsi, in caso contrario pazienza.  Così agiscono gli dei del nuovo tempo. Reggono il cosmo varcando le soglie del giusto, verrebbe di ripetere con le parole delle sconfitte Erinni.
            Quindi c’è una emancipazione possibile sotto la guida di Atena, la dea nata dalla mente di Zeus, legata all’aria e all’intelletto, considerate prerogative maschili.
            Non si può non richiamare l’attenzione poi come residui della cultura patriarcale tipici della società primitiva, teorizzata da Veblen,continuino ad influenzare una certa visione della donna come trofeo da esibire. Ciò trova espressione esemplificativa oggi nel modo degli sportivi. Mondi dove la forma e l’apparenza hanno un ruolo mediatico fondamentale nel dettare costumi e atteggiamenti. Assai difficile è notare sportivi famosi che non si accompagnino a bellissime donne, raramente presentate per capacità o abilità, ma il cui ruolo pare semplicemente quello di mostrarsi accanto al moderno eroe, si pensi al calciatore ad esempio, al solo fine di farne brillare la stella, il grado di reputazione. Discorso simile si può suggerire per il mondo dello spettacolo, anche se in questo caso va osservata una compiuta parità dei sessi nell’applicare il modello culturale maschile del partner trofeo. In più la libidine di dominio di chi detiene il trofeo pare esplicarsi soprattutto in una marcata differenza di età, oltre alla scontata bellezza o aitanza. I casi citati mostrano in pratica ancora l’esistenza di forme di relazione in cui prevale l’ideale maschile dell’oggetto da detenere e esibire a dimostrazione del proprio grado di rispettabilità, successo, onore. Auspicabile sarebbe, invece, l’affermarsi di nuovi modelli incentrati su valori e caratteri tipicamente femminili che oltre ad una compiuta liberazione della donna, possano altresì plasmare una società capace di comprendere e vivere in armonia con il mondo e la natura. In pratica quella che la studiosa americana Riane Eisler ha chiamato gilania17, fondendo le parole greche gynè (donna) e anér (uomo), tramite la lettera l nel duplice significato mutuato dalla parola inglese linking (unione) e da quella greca lyein (risolvere, liberare) : una organizzazione sociale fondata sulla parità dei sessi, sostanzialmente priva di gerarchie e di una autorità centralizzata.
            In tale contesto, l’unione tra uomo e donna sarebbe in grado di sostituire al rapporto di subordinazione, quello di legame libero. L’apparente ossimoro viene a sciogliersi richiamando la radice dei due termini e il rispettivo significato. Il primo deriva, infatti, dal latino lego, verbo che indica raccogliere, mettere insieme e, in senso figurato, anche leggere. Azione quest’ultima che appunto prevede il raccogliere un insieme di parole per giungere alla comprensione di qualcosa, di un significato. Leggere presuppone, dunque, un libro, contenitore di parole e strumento di comprensione. E librum in latino non a caso presenta la stessa radice di liber, libero. L’espressione legame-libero, di conseguenza, implicherebbe una unione fondata su una reciproca comprensione, la consapevolezza e il riconoscimento del valore dell’altro come sé.
            Occorrono nuovi dei per fondare ancora una volta un nuovo ordine su nuovi valori per riassegnare all’elemento femminile la sua centralità nel mondo, per fondare un modello sociopolitico non violento, incentrato sul rispetto e la tutela della terra e dell’altro da sé.
            Quando l’uomo ha accettato che la donna imbracciasse un fucile e indossasse una divisa per andare insieme alla guerra, la condizione della donna ha compiuto un indiscutibile passo avanti sulla via della emancipazione. La donna non è più soltanto la vittima simbolo della guerra fatta dagli uomini. Ella ora può difendersi in proprio e, di più, può offendere alla pari dell’uomo. Tuttavia, quando la donna convincerà l’uomo a dismettere fucile e divisa per un mondo che rifiuta vittime e carnefici, che vuole la pace come strumento di sviluppo dell’individuo, maschio e femmina nella loro specificità, allora sarà compiuto un passo fondamentale e rivoluzionario in vista dell’emancipazione dell’umanità tutta. L’invocazione delle Erinni (dannazione) divenute ormai Eumenidi (benigne) avrà allora traduzione fattuale: Festosa corrispondenza d’affetti, in cara armonia d’intenti e, nell’odio, cuori che si fondono in uno. Così sia! Ecco il rimedio sovrano18!


1) Bonaventura, Itinerario dell’anima a Dio, ( a cura di M. Letterio), Milano, 2010.
2) M. Weber, Interventi al secondo congresso della Società tedesca di sociologia, in Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Torino, 2001.
3) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, 2009.
4)T. Veblen, La teoria della classe agiata, Torino, 2007; Id., La condizione delle donne nelle società barbariche, in American Journal of Sociology vol. 4, (1898 - 9).
5) J. J. Bachofen, Il matriarcato. Storia e mito tra oriente e Occidente, Milano, 2004; vedi anche F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma, 2006.
6) Eschilo, Eumenidi, in Orestea, (trad. E. Savino), vv. 171-172, Milano, 2016.
7) Ivi, vv. 162.163.
8) Ivi, vv. 261-262.
9)Ivi, vv. 665.
10) Ivi, vv. 571-572.
11)Ivi,, v. 621.
12) Ivi, vv. 626, 639.
13) Ivi, v. 640.
14) Ivi, vv. 658-660.
15) Ivi, vv. 683, 691-695.
16) Ivi, vv. 736-738.
17) R. Eisler, Il calice e la spada. La civiltà della grande dea dal neolitico ad oggi, Udine, 2011.
18) Eschilo, op. cit, vv. 984-987.